domenica 17 febbraio 2013

La favola di Psiche - 4° Notte

Frattanto Psiche andava girovagando qua e là, da un luogo all’altro. Senza aver requie, cercava notte e giorno il suo sposo, ed era sempre più desiderosa, se non di calmare l’ira di lui con le carezze che una moglie conosce, almeno di ottenerne il perdono con le preghiere proprie degli schiavi. Vide ella un tempio sulla cima d’un’erta montagna ed esclamò:
"Chi mi dice che il mio signore non abiti là?"
Subito vi si dirige a rapidi passi e, sebbene si sentisse venir meno per le continue fatiche, la speranza di veder esaudito il suo desiderio la riempiva di nuovo ardore. Finito che ebbe di superare i dossi più alti del monte, arrivò presso al tempio. Vide allora spighe di frumento a mucchi o attorte a mo’ di corona, e vide pure spighe d’orzo. V’erano anche falci e tutti gli attrezzi che servono per la mietitura, ma tutti quanti giacenti qua e là senza cura, così come i contadini nelle ore più calde sogliono abbandonarli alla rinfusa. Con molta attenzione Psiche li divise e, separatili l’un dall'altro li ripose nell'ordine dovuto, credendo naturalmente che di nessuna Divinità dovesse trascurare i riti e i santuari, ma che anzi di tutte dovesse implorare la benevolenza e la pietà.
Mentre con gran zelo si dava cura di questi oggetti, l’alma Cerere la colse di sorpresa, e lì per lì proruppe in una lunga esclamazione:
"O povera Psiche, che mi dici? Su tutta la terra Venere va in caccia affannosa e ricerca infuriata le tue orme, ti reclama per l’estremo supplizio e chiede vendetta con tutte le forze che la sua divina potenza le consente, e tu ti prendi cura delle cose mie e pensi ad altro che alla tua salvezza?"
Allora Psiche, prostrandosi a terra, bagnava i piedi della Dea con un fiume di lacrime e spazzava il pavimento coi suoi capelli: pregando e ripregando la Dea, ne implorava il favore:
"Io ti scongiuro per questa tua mano destra apportatrice di frutti, per i riti sacri che rendono lieta la mietitura, per il segreto che avvolge le ceste dei tuoi sacri arredi, per l’alato cocchio trascinato dai draghi tuoi servi, per i solchi delle campagne sicule, per il cocchio rapitore e la terra avara, per la discesa di Proserpina verso nozze tenebrose e per il ritorno della figlia tua, dopo che la ritrovasti al lume delle fiaccole, per tutti gli altri segreti che il santuario dell’attica Eleusi avvolge nel silenzio, soccorri l’anima infelice di Psiche, la tua supplice. Permetti che tra questa congerie di spighe io mi nasconda, anche per pochi giorni, sinché quella Dea così possente abbia il tempo di lasciar sbollire la sua collera, o che almeno io, stanca come sono per i continui travagli, possa avere un po’ di requie e riprender le forze."
Cerere replicò:
"In verità le tue lacrime e le tue preghiere mi commuovono, ed lo vorrei venirti in aiuto, ma non me la sento di incorrere nel risentimento di mia cognata. Ho con essa anche un legame d’amicizia che dura da tempo; ed ella, inoltre, è una donna eccellente. Allontanati, dunque, immediatamente da questa casa e stimati fortunata se non ti trattengo sotto buona scorta."
Psiche, contro la sua speranza, si vide respinta, e fu doppiamente afflitta dall'angoscia.  Mentre rifaceva all'indietro la via, scorse, nella penombra d’un bosco che riempiva una valle sottostante, un santuario che appariva costruito a regola d’arte; e poiché non voleva trascurare alcuna possibilità, anche se incerta, di miglior fortuna, ma era risoluta a rivolgersi per aiuto a ogni Divinità, qualunque essa fosse, si avvicina alla sacra porta. Scorge doni di gran pregio e vesti appese ai rami degli alberi e agli stipiti della porta, con scritte in oro che facevan menzione della grazia ricevuta e della Dea cui erano state dedicate. Allora cadde in ginocchio, abbracciò l’altare ancora tiepido e, dopo essersi asciugate le lacrime, così pregò:
"O sorella e moglie del grande Giove, sia che tu risiedi negli antichi templi di Samo, ed essa sola si possa vantare d’averti vista nascere, d’aver udito i tuoi vagiti e provveduto al tuo nutrimento, sia che tu frequenti le ricche dimore dell’eccelsa Cartagine, ove si adora l’immagine tua di ragazza che passa per il cielo trasportata da un leone, sia che proteggi le mura illustri di Argo presso le rive dell’Inaco, e qui tu sei onorata come sposa del signore del tuono e regina degli Dei, tu che tutto l’Oriente venera col nome di Zigia e tutto l’Occidente chiama Lucina, sii per me nell'estrema rovina Giunone salvatrice, e liberami dalla paura dell’incombente pericolo per tutti i travagli che ho dovuto sopportare. Per quel che so, tu suoli spontaneamente porgere il tuo aiuto alle partorienti nel momento del rischio."
Psiche in tal modo supplicava la Dea, e Giunone subito le apparve dinanzi in tutta l’augusta dignità del suo nome e le disse:
"Come vorrei, sinceramente, accordare il mio consenso alle tue preghiere! Ma un giusto riguardo non mi permette d’agire contro la volontà di Venere, mia nuora, che io ho sempre amato come mia figlia. Inoltre, me lo impediscono le leggi che fan divieto di accogliere i servi altrui fuggitivi, senza il consenso dei loro padroni."
Psiche fu abbattuta dal naufragio che inghiottiva anche questa volta le sue speranze e, non potendo più raggiungere l’alato sposo, perse ogni speranza di salvezza e domandò consiglio a se stessa:
"Che altro mi resta da tentare? Qual altro riparo opporre alle mie sciagure, se neppure le Dee, con tutta la loro buona volontà, possono porgermi aiuto? Chiusa dunque, come sono, in una rete inestricabile, dove ancora dovrei volgere il piede? In qual casa, in qual tenebroso recesso dovrei nascondermi per sfuggire allo sguardo infallibile della grande Venere? Perché allora non ti armi di virile energia e non rinunzi coraggiosamente alle tue speranze infrante? Arrenditi spontaneamente a colei che è la tua signora, e cerca di calmare l’ardore della sua collera con l’umiltà tua, anche se tardiva. Chissà, pure, che tu non trovi là, in casa della madre, colui che vai cercando da tanto tempo...."
Così Psiche, nel prepararsi a un’obbedienza di esito dubbio, o piuttosto a una morte che appariva certa, rifletteva tra sé al modo come dar principio alle sue implorazioni.
Intanto Venere, rinunziando a valersi di mezzi terreni per le sue ricerche, decide di salire in cielo, e ordina di preparare il suo cocchio. Lo aveva modellato per lei Vulcano con ogni cura e con arte sottile di orefice e, prima di inaugurare il talamo nuziale, glielo aveva offerto come dono di nozze; la lima, affinandolo e levandone il soverchio, aveva accresciuto il suo pregio. Tra la folla delle colombe che soggiornano intorno alla camera della loro signora, quattro d’un bianco lucente si avanzano con gioiosa andatura e, piegando il variopinto collo, si sottomettono al giogo costellato di gemme; poi, ricevuta che hanno la loro padrona, lietamente prendono il volo. In corteo, dietro al cocchio della Dea, folleggiano con acuti pigolii i passeri e tutti gli altri uccelli che posseggono una bella voce, elevano dolci melodie e con soavi canti annunziano l’arrivo della Dea. Si ritirano le nubi, il cielo si apre al passare di sua figlia, l’etere in alto accoglie con gioia la Dea, e il canoro seguito della possente Venere non prova alcun timore, se incontra aquile o rapaci avvoltoi.
Allora la Dea si dirige al regale palazzo di Giove, e in atto altero richiede che le sia permesso, per un servigio a lei indispensabile, valersi della voce stentorea del Dio Mercurio. Giove col suo nero sopracciglio fece cenno di sì. Subito Venere, esultante, in compagnia di Mercurio scende giù dal cielo e si fa premura di parlargli.
"O fratello nato in Arcadia, naturalmente tu sai che tua sorella Venere non ha mai intrapreso alcunché senza la tua assistenza, e non ti sfugge comunque che da molto tempo io cerco invano una mia ancella che si nasconde. Non mi resta altro che valermi della tua funzione di banditore e promettere pubblicamente una ricompensa a chi la scoprirà. Affrettati perciò ad eseguire l’incarico che ti affido e a render noti i contrassegni che posson servire per il riconoscimento. Altrimenti colui che si sia reso colpevole di averle dato rifugio contro le leggi potrebbe sempre giustificarsi, protestando la sua ignoranza."
Mentre così parla, gli porge un libretto ove era scritto il nome di Psiche e tutte le altre indicazioni, poi si ritira dritto filato a casa sua.
Mercurio non trascurò di obbedire. Visitando una popolazione dopo l’altra, attraverso i vari paesi, assolveva in questo modo l’incarico di banditore, che gli era stato affidato:
"Colui che potrà arrestare o indicare dove si trova una schiava fuggiasca, figlia di un re e serva di Venere, di nome Psiche, vada a trovare Mercurio banditore dietro i pilastri della valle Murcia. Egli riceverà da Venere in persona, in compenso dell’informazione, sette dolci baci, e uno per giunta dolcissimo tutto miele, dato con carezzevole tocco della lingua."
In questi termini Mercurio annunziò il bando, e la brama d’ottenere un premio così grande stimolò a gara la passione d’ogni uomo mortale. Questa circostanza soprattutto tolse a Psiche ogni esitazione. E già essa era vicina alla porta della sua regina, quando le si fece incontro una che faceva parte del seguito di Venere; si chiamava Abitudine, e subito con voce altissima gridò:
"Finalmente, infamissima serva, hai cominciato a capire d’avere una padrona? O forse, vista l’impudenza del tuo contegno, fingi di non sapere neanche quante fatiche abbiamo dovuto sostenere nel cercarti? Ma bene! Sei caduta proprio tra le mie mani! Sei ora impigliata tra le sbarre dell’Orco medesimo, e ben presto pagherai di sicuro il fio della tua imprudente superbia!"
Dopo di ché, cacciò violentemente la mano nella chioma di Psiche e la trascinò via senza che ella osasse un solo gesto di resistenza. Fu condotta dentro, e Venere, appena la vide in suo potere, scoppiò in una sonora risata; poi, come suol fare una persona che è assai adirata, scosse il capo e, grattandosi l’orecchio destro, esclamò:
"Finalmente ti sei degnata di venir a salutare tua suocera? O piuttosto sei venuta a visitare tuo marito, che per colpa tua giace ferito in gravi condizioni? Ma stai pur sicura! Voglio riceverti con quel riguardo che si deve a una buona nuora. Dove sono", chiese poi, "Affanno e Tristezza, mie ancelle?"
Le chiamò dentro e gli consegnò la ragazza per sottoporla alle torture. Esse, obbedienti all'ordine della signora, oltre a percuotere la povera Psiche con le loro sferze, le infliggono ogni sorta di tormenti, dopodiché la riconducono al cospetto della regina. Allora Venere nuovamente ci fece su una risata e disse:
"Ecco qua! Costei cerca di muovermi a compassione e allettarmi, con la vista di quel suo ventre gonfio; vorrebbe evidentemente che io mi sentissi nonna felice di un illustre rampollo! C’è davvero da esser felici! Dovrò esser chiamata nonna, ora che sono proprio nel fiore dell’età, e il figlio d’una vile serva avrà fama d’esser nipote di Venere! Eppure, sciocca che sono a chiamare costui figlio! No, certo! Nozze tra persone di condizione diversa, e per giunta svoltesi in una fattoria isolata, senza testimoni, senza il consenso del padre, non possono considerarsi legittime. Perciò codesto figlio che ne nascerà sarà un bastardo, se pure ti permetteremo di portar a termine il parto."
Così detto, si scaglia su di lei, le fa a pezzi la veste, le strappa i capelli, la scuote per il capo e la percuote brutalmente. Poi si fa recare grano, orzo, miglio, semi di papavero, ceci, lenticchie e fave, mescola tutto alla rinfusa, ne fa un sol mucchio, e le dice:
"Sei una serva, e anche assai brutta d’aspetto. Mi sembra dunque evidente che tu acquisti la benevolenza del tuoi amanti solo col mostrarti premurosa al loro servigio. Ebbene! Anch'io voglio mettere in prova la tua abilità. Fa’ la cernita di questa confusa massa di chicchi, separali e disponili in ordine, uno per uno, e prima di sera mostrami il lavoro finito."
Così, dopo averle assegnato un mucchio tanto grande di grani, Venere se ne andò a un pranzo di nozze. Quanto a Psiche, non osò mettere le mani in quel caos inestricabile, ma rimase istupidita in silenzio e costernata per l’enormità del compito. Allora una formica piccolina, di quelle che abitano in campagna, ben conoscendo la grande difficoltà di quel lavoro, provò compassione per la compagna del possente Dio e maledisse la crudeltà della suocera. In gran fretta corse di qua e di là a chiamare a raccolta l’esercito tutto delle formiche dei dintorni: "
Abbiate pietà, o agili figlie della terra, nostra madre comune, abbiate pietà d’una bella giovane, sposa d’Amore. Presto! Muovete velocemente in suo aiuto, ché ella si trova a rischio della vita."
Accorrono a ondate, le une sulle altre, le turbe delle stirpi a sei zampe. Tutte a gara, grano per grano, operano la cernita dell’intero mucchio, separano e distribuiscono con ordine le varie specie di grani, poi si affrettano a sparire alla vista di tutti.
Iniziava la notte, quando Venere, ebbra di vino, olezzante di profumi e tutta inghirlandata di splendide rose, fece ritorno da un pranzo nuziale. Scopre la straordinaria diligenza di quel lavoro, ed esclama:
"Briccona! Né tu né le tue mani hanno avuto parte in codesta opera. Essa è frutto di colui a cui piacesti proprio per la tua disgrazia e anche per la sua" e, gettatole in terra un tozzo di pane, se ne andò a dormire.
Frattanto Amore era tenuto chiuso sotto attenta sorveglianza in una camera isolata all'interno del palazzo, sia perché non aggravasse la sua ferita con la sua sfrenata intemperanza, sia per impedire che egli si riunisse alla donna delle sue brame. Così gli amanti, lontani e separati, benché sotto lo stesso tetto, passarono una notte assai triste.
L’Aurora da poco era salita nel cocchio, quando Venere, fatta chiamare Psiche, le dice:
"Vedi quel bosco e il fiume che lo bagna? Esso si stende per lungo tratto sulle rive del fiume, e le sue estreme propaggini arrivano sin quasi a coprire la vicina sorgente. In esso vanno pascolando in libertà delle pecore adorne d’una lana che luccica come l’oro schietto. Ingegnati pure come vuoi, ma io voglio che immediatamente tu mi rechi di là un fiocco di lana di quella preziosa pelliccia."
Psiche si mise volentieri in cammino, ma non con l’intenzione di obbedire all'ordine  bensì per gettarsi da una rupe nel fiume e trovar così requie alla propria disgrazia. Ma dal letto del fiume una verde canna, nutrice di soavi suoni, attinse una divina ispirazione al lieve crepitio d’una dolce brezza e diede questo profetico insegnamento:
"Psiche, tu sei stata già tribolata da una quantità di sciagure: non contaminare dunque con una tristissima morte le mie sacre acque e non avviarti neppure, a quest’ora, incontro a quelle terribili pecore. Difatti, sinché la vampa del sole le mette in calore, esse sogliono divenir preda di una rabbia violenta e, con le corna aguzze, la fronte dura come la pietra e talora anche con morsi stillanti veleno, sogliono avventarsi a morte contro gli esseri umani. Ma quando, trascorso il mezzogiorno, il sole mitigherà il suo ardore e le greggi riposeranno nella calma che esala la brezza fluviale, allora potrai nasconderti sotto quell’altissimo platano che insieme a me beve allo stesso fiume. E appena le pecore, sbollita la loro rabbiosa eccitazione, si saranno ammansite, allora batti le ramaglie del bosco vicino e troverai dei bioccoli di aurea lana, che restano impigliati qua e là nell'intrico degli arbusti."
52Così la sincera e pietosa canna insegnava all'afflitta Psiche il mezzo di salvarsi. Né Psiche se ne stette inerte con poca diligenza, senza ascoltare delle istruzioni di cui non si sarebbe certo pentita, ma le seguì alla lettera, sicché il furto risultò facile; e, riempitosi il grembo, riportò a Venere quella soffice lana fatta di biondo oro. Tuttavia neppure la seconda fatica, eseguita con tanto suo rischio, trovò nella sovrana il giusto riconoscimento, poiché questa aggrottò le sopracciglia e con un amaro riso disse: "Non mi sfugge che anche di questa impresa l’autrice non sei tu, ma un’altra persona. Io voglio, però, questa volta sperimentare sul serio se tu davvero possiedi un animo audace e un senno fuori dell’ordinarlo. Vedi la cima di quella montagna dirupata e l’altissima roccia ch’essa domina? Da quella cima scaturiscono le acque tenebrose d’una triste sorgente e, raccogliendosi nel seno d’una valle vicina, si riversano nelle paludi di Stige e alimentano la rauca corrente di Cocito. Là dove la sorgente scaturisce alla superficie dal seno della terra, attingi alla sua gelida onda e subito recami l’acqua in questa piccola urna." Così dicendo le consegna un vasetto tagliato nel cristallo e per giunta la minaccia di più aspri castighi.
Psiche, a rapidi passi, si affretta a dirigersi verso il giogo più alto del monte, sperando d’incontrare almeno lì la fine d’una vita così travagliata. Ma quando giunse nelle vicinanze di tale cima, scorse le enormi difficoltà di un’impresa che implicava la morte. Poiché la roccia era a dismisura alta, inaccessibile, tutta punte e scivolosa; inoltre, da una gola che s’internava nel sasso, gettava fuori una disgustosa corrente, e questa, appena spicciava dalla cavità sottostante, tosto sfuggiva giù per la china e, infilandosi al coperto per un angusto canale che aveva scavato nella pietra, ricadeva di nascosto in una valle vicina. Ecco che a destra e a sinistra, negli anfratti rocciosi, strisciano e tendono il lungo collo feroci draghi, e le pupille del loro occhi, condannati a perpetua veglia, fan sempre la guardia e sono eternamente aperte alla luce. Persino le acque, che avevano il dono della parola, cercavano di difendersi e si gridavano l’una dopo l’altra:
"Va’ via!" "Che fai? Guarda bene!" "Che vuoi? Stai attenta!" "Fuggi!" "Tu corri a morte!"
Psiche, vista l’impresa impossibile, divenne immobile come una pietra. Era bensì presente col corpo, ma i sensi erano assenti al punto ch’ella, del tutto schiacciata dalla mole di un’impresa pericolosa e senza via d’uscita, non aveva neppure l’estremo conforto del pianto.
Ma all'acuta vista della pietosa Provvidenza non sfuggì l’afflizione di quell'anima innocente. E allora il regale uccello del sommo Giove, l’aquila rapace, comparve all'improvviso con le ali spiegate. Si ricordava dell’antica sua compiacenza, di quando, per impulso di Amore, aveva rapito per conto di Giove il frigio coppiere; e, recando in buon punto il proprio aiuto, volle onorare la potenza del Dio nei travagli della sua sposa. Scese giù dai sentieri di un’erta cima sepolta tra le nubi e, roteando dinanzi agli occhi della giovane, le disse:
"Proprio tu, che per natura sei ingenua e non t’intendi affatto di tali cose, credi di poter rubare o comunque toccare una goccia sola di questa sorgente che è in egual misura sacra e terribile? Sai, almeno per udito dire, che anche gli Dei e persino Giove hanno paura di codesta acqua? Essa appartiene allo Stige: e lo sai che, come voi giurate per la volontà degli Dei, così gli Dei sono avvezzi a giurare sulla maestà dello Stige? Ma dammi quest’urna!" e senz'altro l’afferra strettamente e, battendo le ali gigantesche, si libra nell'aria.  Poi dirigendo di qua e di là il suo volo tra le mascelle del draghi armate di denti crudeli e le loro trifide lingue, attinge alle acque, benché esse siano riluttanti e le intimino minacciose di andarsene, pena la vita. Ma l’aquila afferma che per ordine di Venere viene ad attingere, e che è al suo servizio, e così, grazie alla sua bugia, può avvicinarsi con una certa sicurezza.
Psiche accettò con gioia l’urna colma d’acqua, e in fretta la riportò a Venere. Ma neppure allora poté placare l’infuriata volontà della Dea. Venere la minaccia di sottoporla a più gravi e crudeli oltraggi e l’apostrofa in tal modo, con un sinistro sorriso di scherno:
"Mi hai proprio l’aria di essere una gran maga, dotata di poteri davvero eccelsi, visto che hai prontamente eseguito i miei ordini. E che ordini! Ma, pupilla degli occhi miei, devi rendermi ancora un altro servigio. Prendi questo barattolo", e glielo consegnò, "e recati immediatamente sotto terra, nella funebre dimora dell’Orco. Quando sarai là, presenta il barattolo a Proserpina e dille: ‘Venere ti prega che tu le invii un po’ della tua bellezza, sia pure quel poco che basti per una breve sola giornata. Poiché la sua, prodigandosi nel curare il figlio suo ammalato, l’ha tutta consumata sino al lumicino.’ Ma non tornar troppo tardi, perché ne ho bisogno per spalmarmela sul viso, prima di recarmi all'assemblea degli Dei."
A questo punto, Psiche si accorse davvero d’essere all'estremo della sua fortuna: la maschera era stata gettata, e si voleva evidentemente spingerla a morte sicura. E come no? Nientemeno avrebbe dovuto coi suoi piedi recarsi di persona nel Tartaro, tra le ombre dei morti! Senza troppo esitare, si avviò verso una torre altissima con l’intenzione di buttarsi giù a capofitto: sperava così di poter scendere all'Averno per la via più corta e nel modo più facile. Ma la torre d’improvviso ruppe il silenzio e parlò:
"Perché, infelice, vuoi ucciderti gettandoti nel vuoto? Perché innanzi tempo ti abbatti davanti al rischio che comporta quest’ultima fatica? È evidente che, una volta che l’anima tua sia divisa dal corpo, te ne andrai di certo subito nel profondo del Tartaro, ma di là in nessun modo potrai far ritorno. Dunque, dammi ascolto.
Non lungi di qui si trova Lacedemone, illustre città dell’Acaia. Di lì recati al promontorio Tenaro, che è nelle vicinanze della città, in una località nascosta e lontana da ogni strada. Qui si apre uno spiraglio che porta al regno di Dite, e attraverso le sue porte spalancate si intravede il malagevole cammino. Oltrepassa la soglia e affidati a quella via; seguendo quel budello, ben presto arriverai direttamente proprio alla reggia dell’Orco. Però non ti conviene andartene sin là, per quei luoghi tenebrosi, a mani vuote, ma reca in ciascuna di esse delle focacce d’orzo impastate di vino e di miele, e nella bocca, per giunta, due monetine. Quando avrai percorso una buona parte di quella strada che è riservata ai morti, incontrerai un asino zoppo carico di legna, con un asinaio simile a lui. Costui ti pregherà di raccattare qualche ramoscello caduto dalla soma, ma tu non rispondere, e passa oltre in silenzio. Subito dopo giungerai al fiume dei morti. Suo custode è Caronte, ed egli innanzi tutto esige il prezzo del passaggio, poi con la sua barca di cuoio rattoppato traghetta i viaggiatori sull'altra riva. Anche tra i morti, dunque, vive l’avidità del guadagno, poiché quel famoso Caronte, l’esattore di Dite, un Dio così rispettabile, non muove gratis un dito; ma il povero che muore deve comunque provvedersi del denaro del traghetto, poiché, se non si presenta con l’obolo in mano, non gli si dà il permesso di esalare l’ultimo respiro. A questo vecchio sordido darai come nolo una delle monete che porti, però fa’ in modo che egli la prenda dalla bocca tua con la sua stessa mano. Inoltre, quando tu solcherai la pigra corrente, un vecchio bell’e morto, alzando le mani putrefatte, ti supplicherà di raccoglierlo nella barca, ma tu non ti lasciar commuovere. Laggiù la pietà è interdetta dalle leggi.
Attraversa il fiume e, quando ti sarai inoltrata un poco più innanzi, delle vecchie tessitrici, intente a tesser la tela, ti domanderanno di dargli un piccolo colpo di mano; ma bada che la legge divina ti vieta di toccare la loro opera. Il fatto sta che tutti questi e molti altri tranelli sono frutto di Venere: essa vuole che tu ti lasci cadere dalle mani almeno una focaccia. E non credere che il perdere una focaccia d’orzo sia un danno da poco; se tu ne perdessi una, non potresti assolutamente più vedere la luce del sole. Difatti, un cane gigantesco, fornito di tre teste enormi, orribile e spaventoso a vedersi, emette dalle sue fauci dei latrati che scoppiano come tuoni, e riempie di terrore i morti; è questo un vano terrore, perché egli ai morti non può più causare alcun male, ma così egli fa la guardia di continuo dinanzi alla soglia e al fosco atrio di Proserpina, e custodisce la vuota dimora di Dite. Ma basta che tu gli getti una focaccia sola, e diverrà subito mansueto; allora potrai facilmente passare ed inoltrarti direttamente sino al cospetto di Proserpina. Essa ti riceverà con cortese benignità, ti inviterà a sederti comodamente e ti offrirà un’abbondante colazione. Ma tu, invece, siediti per terra, fatti portare un tozzo di pane scadente e mangiatelo, poi informala del motivo della tua venuta e prendi ciò che ti verrà presentato. Nel ritorno, per liberarti da quel cane feroce, gettagli la focaccia che ti resta, e dai all'avido nocchiero la moneta che hai in serbo. Una volta varcato il fiume, ricalca le orme del viaggio d’andata, e tornerai a veder il cielo con il corteo delle sue stelle. Ma in special modo ti raccomando di far attenzione a una cosa: non aprire, non guardar dentro la scatola che porti, e comunque non permetterti eccessiva curiosità riguardo al tesoro di divina bellezza che vi è nascosto."
Così la torre, dotata della preveggenza, adempì alla sua funzione d’oracolo. E Psiche non indugiò, ma si diresse verso il Tenaro. Si fornisce, nel modo prescritto, delle monete e delle focacce, e corre giù per l’infernale corridoio. Senza parlare, passa innanzi all'asinaio infermo, dà al pilota il prezzo del passaggio, non si cura del morto che nuota alla superficie e delle sue suppliche, sdegna le insidiose preghiere delle tessitrici, con l’offerta d’una focaccia addormenta il cane rabbioso ed orrendo, ed infine penetra nella dimora di Proserpina.
Qui non accetta la soffice poltrona e il ricco pasto che l’ospitale Dea le offre, ma si siede in terra ai suoi piedi e, contentandosi di pane scadente, espone l’ambasciata di Venere. Subito la Dea, in disparte, le riempie la scatoletta e la chiude; Psiche la prende, con l’astuta offerta della seconda focaccia sbarra la bocca al cane e ai suoi latrati, offre al nocchiero la moneta che le resta, e ritorna su dall'Inferno molto più arzilla che all'andata.
Nel rivedere la fulgente luce di quassù, fa atto di adorazione, poi, sebbene abbia fretta di portar a termine il compito suo, si lascia invadere da un’irragionevole curiosità:
"Ecco qua!", esclama. "Che sciocca sono, a portare un dono di divina bellezza senza gustarne neppure un pochetto. Almeno così potrò piacere al mio amante!"
E così detto, apre la scatoletta. Ma dentro non c’era niente, e di bellezza neppure l’ombra. V’era solo un sonno infernale, un sonno davvero degno dello Stige, che, appena libero del coperchio, la assalì: una densa nube gravida di sonno le avvolse le membra e si impadronì di lei, e Psiche cadde a terra proprio sulla via, nel luogo stesso in cui aveva posato il piede. E così la giovane giacque immobile, in tutto simile a un cadavere sepolto nel sonno della morte.
Frattanto Amore era convalescente e la ferita rimarginata. Egli, non riuscendo più a sopportare la continua mancanza della sua Psiche, fugge via per una finestra che si apriva assai in alto nella camera in cui era rinchiuso. Le sue ali avevano ripreso vigore durante il tempo del suo riposo, sicché egli, volando con la massima rapidità, accorse presso la sua Psiche. Premurosamente le deterge il sonno e lo richiude nella scatoletta in cui prima era contenuto, poi desta Psiche, pungendola, senza farle alcun male, con una delle sue saette, e le dice:
"Amore e Psiche"
Canova
"Ecco, poverina! Anche questa volta eri caduta vittima della tua curiosità. Ad ogni modo, affrettati a condurre a termine l’incarico che ti ha affidato mia madre. Il resto me lo vedrò da me."
Così parlò l’amante, e si librò a volo sulle sue ali; e Psiche si affrettò a riportare a Venere il dono di Proserpina.
Ma Amore, consunto dall'eccesso del suo desiderio, era triste in volto e assai preoccupato per l’improvvisa austerità di sua madre. Ritorna perciò alle sue vecchie abitudini, e con rapido volo penetra sino al punto più alto del cielo e lì si getta supplichevole ai piedi del grande Giove, per difendere davanti a lui la sua causa. Allora Giove lo prende per la gota e, attirandolo con la mano accosto al volto suo, lo bacia e così gli parla:
"Signor figlio, è ben vero che tu non mi hai mai reso quell'omaggio che gli Dei hanno decretato di concedermi. Anzi, tu più volte hai ferito con i tuoi colpi questo mio cuore che regola le leggi della Natura e i moti degli astri, e di frequente lo hai avvilito al contatto di avventure e amori terreni; inoltre, contravvenendo alle leggi, e precisamente alle disposizioni Giulie, e in barba alla pubblica morale, col mescolarmi a vergognosi adulteri, hai leso il mio onore e la mia reputazione, trasformando la maestà del volto mio nello spregevole aspetto d’un serpente, di una fiamma, d’una belva, d’un uccello e di una bestia da gregge. Eppure, considerando che tu sei cresciuto proprio tra le mie braccia, io farò tutto ciò che desideri. Bada però di metter in guardia coloro che eventualmente volessero imitarti; e se poi ora sulla terra esiste qualche ragazza davvero bellina, ricordati che tu, in cambio del beneficio che ti rendo, sei in obbligo di offrirmela."
Così parlò Giove, e diede ordine a Mercurio di convocare immediatamente in assemblea plenaria gli Dei e di render noto che era comminata una multa di diecimila sesterzi per chi avesse disertato l’adunanza. In seguito a questa minaccia, subito si riempì il teatro delle celesti riunioni, e Giove, che dal trono elevato in cui sedeva dominava gli astanti, tenne questo discorso:
"O Dei iscritti nell'albo delle Muse, di certo tutti sapete che codesto giovane io l’ho allevato con le mie mani. Nella sua prima giovinezza ho creduto bene di dover mettere un freno ai suoi impetuosi ardori: basta già che la gente chiacchieri, e che adulteri e scandali di tutti i generi ogni giorno compromettano la sua reputazione. Ma occorre ora levargli ogni pretesto di mal fare; occorre frenare la sua giovanile esuberanza con il legame del matrimonio. Egli si è scelto una ragazza e le ha tolto la verginità. Dunque se la tenga, la possegga, abbracci la sua Psiche e goda eternamente del suo amore."
E, rivoltosi a Venere, esclama:
"E tu, figlia mia, non affliggerti e non temere che un matrimonio con una donna mortale possa recar danno al rango del tuo illustre casato. Io farò immediatamente in modo che queste nozze non avvengano tra sposi di condizione diversa, ma siano legittime e conformi al diritto civile"; e subito dà ordine a Mercurio di andare a prendere Psiche e di condurla in cielo.
Appena ella giunse, le tese un bicchiere colmo di ambrosia e le disse:
"Prendi, Psiche, e sii immortale. Mai Amore ripudierà il vincolo che a te lo unisce. Da oggi voi siete uniti in matrimonio per l’eternità."
Subito viene servito un ricco pranzo di nozze. Lo sposo, stringendo al suo petto Psiche, era sdraiato sul letto d’onore. Parimenti lo erano Giove e Giunone, e poi in ordine tutti gli altri Dei. A Giove la coppa del nettare, che è il vino degli Dei, la offriva il suo coppiere particolare, quel ragazzetto di campagna; Bacco serviva gli altri Dei; Vulcano cuoceva il pranzo; le Ore abbellivano ogni angolo con rose e ogni sorta di fiori; le Grazie spargevano profumi, e le Muse facevano echeggiare la loro voce armoniosa. Poi Apollo cantò, accompagnandosi sulla cetra. Venere si esibì in una leggiadra danza, seguendo il ritmo d’una musica soave, e, nell'orchestra che ella si era preparata, le Muse cantavano in coro, un Satiro suonava il flauto, un Panisco soffiava nella sua zampogna. Così, secondo il rito prescritto, Psiche sposò Amore e al termine giusto nacque loro una figlia, che noi chiamiamo Voluttà.

Fine 
Buonanotte e Sogni d'Oro!

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